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zarina

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Blog Entries posted by zarina

  1. zarina

    I racconti di Plutone
    Abitavo lo squallore, ma ero luce.
    All'inizio mi sembrava di girare e girare, e finire sempre nello stesso posto, con le stesse persone, le stesse luci malate. 
    Quel mal di testa latente che pulsava intorno a me in una specie di allucinazione circolare e psichedelica, mi confondeva. 
    La città era assopita e fatta. 
    Non si svegliava mai davvero, e a me toccava farlo invece.
    Entrare in quella nube di spettri e riflessi viola di primo mattino mi faceva orrore ma non mangiare, me ne faceva di più.
    Tutto mi stancava e mi metteva addosso polvere. 
    I tempi morti scandivano le mie giornate. 
    Ma si impara ad allinearsi ai vuoti, si impara tutto. 
    Una stanza per me. Proprio come gli adolescenti.
    Il portiere era talmente sgradevole. 
    Non si capiva se fosse lui a puzzare delle sue stanze, o le stanze a puzzare di lui. 
    Muffa e ammorbidente. 
    Un fetore che aveva qualcosa di lurido e domestico allo stesso tempo, saliva per tutti i piani e si spargeva sulla moquette dei corridoi. 
    Quando entravo mi guardava con una rabbia brutale che sentivo arrivare dritta in mezzo alla fronte. 

    - Muoviti, che non sono la tua balia, bambina. 

    Avevo detto a lui, come a tutti, di avere diciannove anni anche se sapeva che non potevo averne più di sedici. 
    Usavo il fornellino per accendermi le sigarette. Ma non sapevo fumare e per quel gesto così carino ogni volta era tosse, cenere e puzza. 
    Non ho mai capito chi dice di sentirsi solo, da solo. 
    Se ti curi di rendere te stesso una persona gradevole, non sei solo. 
    E io ero sola. 
    Mi ero lasciata tutto dietro. 
    La scuola, la famiglia, le strade vuote della periferia. 
    Iniziai a sentirmi però fin troppo poco sola, quando le mattine diventarono le notti. 
    Avevo posato per delle foto molto poco glamour scattate da un giovane emergente, e un incontro casuale con una truccatrice mediocre, mi aveva trascinata dove volevo essere. 
    Da amatoriale, alle cose serie. 
    Lei premeva piano i polpastrelli pieni di brillantini sulle mie palpebre, aspettando ogni volta che aprissi gli occhi come se il mondo intero non potesse continuare a girare prima che lo facessi. E io lo facevo. 
    Esattamente come si aspettava. 
    Cercava di sedurmi con il miele, adulandomi di belle parole e carezze gentili. 
    Ma io sapevo bene che chi iniziava così finiva poi per odiarmi, nella frustrazione di scoprire che non ero quello che si aspettava. 
    Mi truccava come fossi la sua bella bambola e poi mi portava fuori. 
    A prendere quell'aria insana che c'era ovunque. 
    Buttavamo giù decine di quei drink venusiani con dentro la menta rancida e poco ghiaccio. 
    Poi li rivomitavo sperando di non dare nell'occhio. 
    La dottrina estetica mi rapiva anche quando non la capivo, anche quando non riusciva a contaminarmi.
    Nel mio mondo trovavano ancora spazio un'ingannevole ingenuità e una purezza splendente. 
    Il che, mi irradiava di una grazia che bloccava gli sguardi.
    Ma anche quando mi dimenticavo, c'era sempre qualcuno a ricordarmi la mia bellezza. 
    Sguardi feroci o desiderio strisciante avanzavano dietro ai miei passi come un respiro venefico sul collo, che mi dava assuefazione. 
    Ovunque portassi la mia presenza, serpeggiavano eccitazione e nervosismo. 
    Un nervosismo patinato, e represso. 
    E c'è qualcosa nell'invidia, che si vede. 
    Più cerchi di buttarla giù, più questa sale, facendo i lineamenti di pietra e sale. 
    Più tenti di zittirla più si strozza nella tua gola come un groviglio di nodi. 
    Era così struggente e terribile guardare gli altri salire tante scale al contrario per ottenere quello che io potevo avere facilmente e subito, solo essendo me. 
    Iniziai a nutrirmi di quell'invidia. 
    La ingoiavo come acqua tonica che mi grattava le fauci e mi ritemprava di nuova bellezza. 
    La bellezza non è tutto, la bellezza è l'unica cosa. Anche se non salverà il mondo. 
    Questo era quello che dicevano tutti. 
    Quello che pensavano tutti. 
    Quando lavoravo, finalmente come volevo io, era tutto facile per me. 
    Vedevo che le altre faticavano per tenere in piedi una serie cose che in me erano naturalmente già organizzate. In un'armonia odiosa. 
    I patetici tentativi di sminuirmi che arrivavano dalle ragazze si infrangevano tristemente sulla mia schiena. 
    Si spezzavano fragili come denti da latte, cadendo davanti agli occhi di chi li aveva messi al mondo. 
    Non subivo più lo sbandamento della città. 
    Ne ero completamente parte e scenario.
    Ero il sangue nuovo che arriva a rigenerare un corpo in fin di vita, senza colore sulle tempie.
    Pensare che c'era stato un tempo in cui credevo di voler essere come gli altri, prima di rendermi conto che gli altri, volevano essere me. 
    Non so esattamente quando successe. 
    Intendo dire, quando mi risvegliai. 
    Appena prima di sparire nell'incapacità di capirlo davvero.
    Forse la rottura tra me e le mie buone illusioni avvenne quando mi fermai davanti alla porta del bagno perché avevo sentito piangere Sara, quel giovedì. 
    Le guance scavate le irrigidivano il volto. Immobile, se ne stava davanti allo specchio in una sorta di intorpidimento malefico. 
    Aveva spaccato metà dello specchio e pezzi di vetro scricchiolavano sotto le suole dei miei sandali. 
    Leggevo la delusione sulla sua faccia spenta. 
    Forse c'entrava una sfilata che era saltata. 
    O più probabilmente sentiva che nessuno la guardava più come prima. 
    Che la sua energia vitale, come la sua bellezza, era stata consumata. Usata e riusata fino a renderla ordinaria. 

    Le chiesi se avesse bisogno di aiuto, ma fu come una coltellata per lei. 
    Non so perché lo feci. 
    Sapevo che l'avrei ferita. 
    Forse ero andata in quel bagno per dare a me stessa una versione decente dei miei comportamenti. 
    O forse volevo solo sentirmelo dire. 
    - Come ci si sente, ad essere te? 
    Finsi di non aver capito. 
    - Scusa? 
    Si accese una sigaretta con sicurezza e si acquattó a terra, guardandomi negli occhi mentre anche io mi abbassavo lentamente iniziando a raccogliere i vetri, docilmente.
    - Non farlo. 
    Non fingere di non accorgertene. 
    Le persone ti guardano. 
    Com'è? 
    Essere incanto. 
    Capace di dare agli altri l'impressione che una sorgente d'acqua ti si metta davanti proprio quando hai sete? 
    Un ronzio insistente si posizionó come un disco tagliente attorno alla mia testa, e per un attimo dovetti prendere un respiro. 
    Quando rialzai lo sguardo la sentii fissa su di me. 
    Gli occhi azzurri si spalancavano voraci verso il mio corpo. 
    Mi sentii predata. 
    Esattamente come avrebbe fatto un cerbiatto desolato, in mezzo a una radura rimasi ferma. 
    - È tutto. 
    Dissi spietata, senza misurare le parole. 
    Senza pensare. 
    Sara scattó in un movimento veloce e rabbioso e nell'indietreggiare appoggiai istintivamente le mani a terra premendo. 
    Il vetro, scivoló dentro la pelle tirandomi fuori uno strillo esile e viscerale. 
    Entró facilmente.
    Mi accorsi di come si faceva strada su di me, sfilacciando la mia pelle come un velo. 
    Guardai il sangue che macchiava il mio palmo e gocciolava, e un capogiro mi sorprese mentre mi accorgevo di essermi sporcata la gonna. 
    - Fa vedere. 
    Mi disse. 
    Non appena allungai la mano vidi la sua espressione diventare determinata e perversa. 
    Mi afferró il polso e si gettó sul mio sangue succhiando forte carne e vetro. 
    Un colpo di terrore mi scosse e riuscii a staccarmi da lei. 
    La lasciai lì, a quattro zampe come una fiera, completamente imbrattata del mio sangue in volto e sulle mani. 
    Corsi. 
    Corsi veloce. 
    Superai la radura, passai il bosco. 
    Sentivo il cuore che mi saltava in mezzo ai denti e il mio respiro che faceva rumore. 
    Lasciavo chiazze di sangue vivo e briciole di vetro tagliando l'aria. 
    - Stupida cretina che ti sei fatta?
    Vedi di non darmi problemi. 
    Salii le scale. 
    La moquette. 
    La chiave. 

    Liberamente tratto da
    The Neon Demon
    Di Nicolas Winding Refn

     
  2. zarina

    I racconti di Plutone
    Era sempre al chiuso che succedeva. 
    Tra quelle pareti squallide e bianche, le poltroncine intarsiate e il fumo che entrava da tutte le serrature sporcando l'aria e impregnando i suoi capelli crespi. 
    Sembrava di stare in gabbie medicate... appesantite da velluti polverosi, senza finestre né spiragli. 
    Niente che lasciasse intravedere la trasparenza dell'aria, o i bagliori delle stelle la notte. 
    Era come se tutto, dai tappeti ai respiri, fosse intriso di qualcosa di stantio che pesava sul diaframma. 
    Lo champagne pizzicava la gola e ammucchiava le parole l'una sull'altra, che non si vedevano più. 
    La musica, insignificante e tristemente spensierata, si aggirava per i corridoi disperdendo un senso di attesa e di morte. 
    Lei lo faceva con solenne freddezza e distacco.
    Una dolce, sadica indifferenza. 
    La toccavano nervosi, come fosse una bambola con le ciglia abbassate, affondando il viso dentro i capelli pesanti. 
    E ogni volta dopo, mossa da un premuroso senso del dovere, prendeva carta e penna, e compilava con cura il suo rapporto. 
    "Non ha parlato molto questo venerdì.. "
    Scriveva in bella calligrafia, cercando di sembrare precisa sulle osservazioni. 
    Ci teneva a portare a termine il suo lavoro, come un soldato. 
    Non aveva stimoli né voglie naturali. 
    Non c'era indulgenza né comprensione in nessuno dei suoi gesti, ma il suo sguardo brillava di una tenace dignità. 
    Era stata scelta dopo attenta selezione genetica, estetica e morale. Addestrata a conversare in due lingue e ad adornarsi di un'eleganza sobria ma carica di promesse vistose. 
    A sorridere sempre, senza ridere mai. A spostare i polsi, e le caviglie, con movimenti allungati e pieni di una grazia delicata e artefatta.
    Aveva imparato a riconoscere le uniformi, e disimparato il pudore. 
    I nazisti non erano eroi nazionalisti quando sfilavano gli stivali. Non avevano niente dei paladini impettiti di nero che davano l'idea di essere in giro per i vicoli. 
    Alcuni erano violenti, altri piangevano. 
    Tutti erano banali e viziosi. 
    Non volevano essere chiamati generali o continuare a fare i diplomatici. 
    Vittime inconsapevoli della loro stessa mania di purificazione, ridevano sguaiatamente davanti a ridicoli balletti e si rendevano osceni protagonisti di scenette volgari. 
    A vedersi da fuori, sarebbero sembrati perfino a loro stessi dei poveri stupidi. 
    Se c'era qualcosa di salvabile, era la classe di Katherine, la padrona di casa. Istrionica madama. 
    Era tutto un raffinato gioco di controllo a cassetti, in fondo. 
    Le ragazze, che nell'alcova spingevano gli ufficiali alle confidenze politiche, erano a loro volta sorvegliate attraverso spie e microfoni nascosti. 
    Invisibili ascoltatori, intercettavano gli incontri dai sotterranei, pronti a intervenire e trucidare in tempo reale i traditori, ma anche a preparare bozze di perversi ricatti privati. 
    L'odore di muffa e sudore si mischiava a un certo olezzo chimico di ghisa disinfettata, e la gelida queite, era interrota solo dai rumori trasmessi nelle radioline scassate. 
    Tuttavia sotto terra, sembrava che l'aria fosse meno satura e asfissiante che nelle camere. 
    Lei aveva fede. Non era cieca, ma onesta. 
    Quest'uomo è matto. Pensó.
    Tutto scellerato.
    Se ne era stato fermo per minuti interminabili davanti alla specchiera, come se non ci fosse una notte che dovesse finire, fuori. 
    Seduto su sé stesso, con la testa tra le mani.
    Nessun furore, niente alcol sulle ferite. 
    Nessuna droga per dimenticare.
    Poi si era alzato di una lentezza snervante, aveva tolto l'uniforme e l'aveva gettata via, come se gli bruciasse addosso. 
    Aveva gli occhi di un azzurro che pareva fatto di lacrime, e l'aveva guardata come si guarda un essere umano, in quel deserto degradato, spoglio di arte e di poesia. 
    Le aveva chiesto di concedersi senza durezza.
    E lo aveva fatto arreso e maldestro, con le mani aperte lo sconforto in quegli occhi che tutto avevano visto. 
    Un tremore le attraversó le braccia. 
    Non poteva sopportarlo. Sentiva lo spirito che si svigoriva,  quell'emozione gentile le dava dolore fisico. 
    La confusione le sporcó la mente. 
    È così che si cade. Pensó. 
    Nei palmi di un debole. 
    È così che ci si arrende alla vita. 
    Non c'era più la paura, erano spariti i suoni. 
    E gli occhi aperti nel silenzio. Desiderare che ci fosse erba fresca dove sedere, e un sole tiepido, contento di scaldare. 
    Intollerabile.
    Mille guerre di ferro e di fuoco si accesero nella sua testa. 
    Lei non voleva cadere. Non poteva permettersi questa tenera inettitudine. 
    Doveva sopravvivere nel suo mondo rovinato. 
    Un colpo d'ombra, uno solo. 
    Una pallottola dritta, per spegnere ogni traccia d'amore. 
    "Margherita!
    Stai bene, Margherita.." 
    Era di nuovo tutto spento. 
     
    Liberamente ispirato da 
    Salon kitty 
    Peter Norden 
  3. zarina

    Diari
    Caro diario,
    Parcheggio con due manovre. A secco, così. Con quel brivido del rischio. Che è un attimo, e sono danni, che poi sono soldi. 
    Scendo dalla macchina che sembro una appena morta. 
    Le chiavi me le metto in tasca, sennò chi le ritrova.
    Sono pallida, che sembro celeste. 
    Mi guardo nel finestrino e ho la faccia a metà tra appena uscita dal dentista e prima comunione dopo quattro anni di catechismo.
    Non mi sopporto. Odio come cammino, il mio ginocchio dolorante, questa orrenda faccia uguale ogni giorno che le voglio bene giusto perché è la mia. 
    Odio piegarmi a prendere i fogli, la borsa, questo agglomerato di cose inutili che mi porto dietro tutti i giorni.  
    Gli altri pensano che in qualche modo io sappia cosa fare. 
    A volte mi guardano e devo avere la faccia di una che nonostante il catechismo, sa qualcosa delle cose. 
    La verità è che non me ne importa niente, quasi di niente. 
    E mi dispiace a volte dare questa notizia. Vedo che ci rimangono così. Ci speravano che mi importasse qualcosa. 
    Per questo scorro tra le persone con gli occhi sui piedi, cercando di non esserci, evitando ogni sguardo potenzialmente familiare e letale. 
    E’ il momento del giorno che preferisco.
    Quando la giornata abbassa di botto le aspettative.. il tardo pomeriggio.
    Quante ore sono che aspetto questo momento, forse centoventi. 
    Non ne potevo più della mattina con quella sua arrogante spocchia splendente.
    Del primo pomeriggio, che sembra fatto per dirti dormi, assopisciti, rilassati, e poi ti da uno spintone verso la vita. 
    Mi ci voleva questo riequilibrarsi di luci e ombre, dei tram che si trascinano vicino ai marciapiedi e fanno scendere più persone di quante ne salgono, dell’ospedale che si illumina piano.. finestrina dopo finestrina, con questo grigiore speranzoso. 
    La fretta che diventa sera in una manciata di momenti che ti fermi ad allacciarti una scarpa ti alzi ed è già finita. Quello che è successo è successo, ormai è andata. Non ci si volta indietro. Non sarà mai più oggi. Le cazzate di oggi rimangono qui e non sopravviveranno a domani. A parte qualche eccezione che ha a che fare col furto o la frode fiscale. 
    Mi strizzo nel cappotto che sento il freddo salire dall’asfalto. 
    Il solito bar, la solita ragazza stanca con le occhiaie e la voglia di andare a casa sulla schiena che rassetta le sedie lanciandole una sull'    altra. 
    Salgo le scale veloce, contandole tutte. 
    E’ finita la giornata, chissà domani. 
    No aspetta. Ma che l’ho chiusa la macchina?
    Maledetta paranoica. Torno veloce indietro. Giù per le scale. Una due tre quattro. La ragazza mi guarda e pensa ma povera te. 
    Ecco le persone contromano. Di nuovo. Mi sembrano tutte vecchie e colorate di senape. 
    Un ragazzo non ha la giacca. Lo guardo veloce e lui mi riguarda come gli avessi detto sei scemo?
    Ma fai come vuoi, ragazzo strano senza difese, stai senza giacca. Mica sono tua madre. 
    Ah che poi, oltre che pallida, apatica, e appena morta, sono anche madre. Non ci voleva. 
    Chiudo la macchina che è già chiusa. Mi riaggiusto la roba inutile tra le mani, questa armatura stupida senza senso, e riparto. 
    Io ero fatta per altro. Avevo grandi progetti per me. Tipo rimanere bambina per sempre, allevare rettili, fare solo quel che mi va come Pollyanna. E invece guarda qui. Sono io quella grande. Tocca a me tornare indietro per controllare di aver chiuso la macchina già chiusa. Che pensiero vano e inutilizzabile. Almeno ho davvero chiuso col catechismo. 
    Via con le scale. Una due tre quattro cinque. Il solito bar che ormai è chiuso. Il buio che si è preso la città. 
    E’ finita la giornata. Domani chissà. 
     
  4. zarina

    I racconti di Plutone
    Nel monastero l'aria era fresca e ferma. Ogni giorno scorreva lento come acqua trasparente che bagna la terra e si fa strada piano tra le colline. 
    Le rondini, tagliavano il vento di primavera contente nelle mattine di aprile, fredde e leggere sopra le mura. Tutto, sembrava forte ed inesorabile. 
    Se studiaste il monachesimo o scorreste le memorie dei vecchi monaci, leggereste di continuo che la vita dei monaci è talmente placida e garbata da alleviare i lamenti di qualsiasi anima inquieta. 
    Non c'è rumore che non abbia il rassicurante tonfo delle campane o della tormenta dolce che fischia la sera dentro al bosco, al limitare della foresteria. 
    Non c'è regola che non venga seguita ed eseguita ogni giorno, in un normale susseguirsi di attività coerenti e legate, accompagnate dalla luce diurna. 
    Se la scrittura e la copiatura appaiono rilassanti, la lettura era il piacere più sublime. Le ore passate sui libri sono quelle più intime, più aspettate. 
    La comunità si muove in un meccanismo perfetto di accordi e musica. L'ambiente pulito, odora sempre di quel caldo ruvido e sobrio che fanno le coperte di lana. I fratelli, buoni e accoglienti. 
    È di questo che ha bisogno un cuore agitato?
    Di pace. Di meditare tra i vecchi olivi e sospendere ogni giudizio mentale. Sentirsi utile, come una piccola ape che ogni giorno si sveglia, e sa che il suo corpo sarà ingranaggio di qualcosa di grande, e di giusto. Che ogni giorno sarà la preghiera, a guidarla in ogni volo, in un ordinato susseguirsi di piccoli eventi ognuno uguale a sé stesso, perfetto nella sua semplice ritualità. 
    Ma dal bosco, non arrivano solo i caprioli affamati di erba tenera e mirtilli.
    A volte, poco prima che il tramonto abbia baciato tutti con la sua luce vellutata, arrivano viandanti malati, affaticati, magri.. che vengono accolti nel mite abbraccio del gruppo, e curati con miele e preghiere. 
    Dopo lunghi giorni di tosse incessante che rimbombava tra i corridoi, Nilo guarì. Gli occhi spalancati su quei giardini gli sembravano un paradiso inaspettato. 
    La luce in convento era di una brevità struggente, ma bastava a tutto. 
    Più per gratitudine che per capacità, divenne un tuttofare. 
    Trascorsero i decenni, e quella luce tiepida brillava sempre sulla sua fronte, brillava e lo rendeva solido e saggio. Per la prima volta si sentiva a posto. La sua vita era diventata migliore di ciò che si era augurato. Così, in questo stato di grazia, prese i voti, e diventó un monaco come tutti gli altri. 
    Ne aveva prese le movenze, la calma, e il tono della voce. Era lontana la sua vecchia vita, lontani i rumori molesti delle sue giornate, e tutte quelle complicazioni di cui si era preoccupato nella sua esistenza. 
    Ma è proprio quando sembra che la salita sia diventata leggera, quando le gambe ormai vanno da sole, che la terra inizia a creparsi sotto le suole, e a segnarsi lentamente, fino a diventare instabile, sbriciolata. 
    Arrivó insieme alla pioggia pesante e gonfia dell'alba, quella donna. Una contadina in fuga, con le labbra livide di freddo e i capelli increspati di rovi. Le vesti strappate dai giorni di cammino e la voce sgraziata da chi ha urlato senza essere sentita. 
    Le donne no. 
    Né contadine, né straniere. Le donne non possono godere della nostra beatitudine. 
    Della serenità del chiostro, e del buon cibo che mettiamo sui tavoli. 
    Nessuna donna aveva l'animo talmente sacro da avanzare di un solo passo verso la croce dell'antico monastero. Una di quelle regole senza incertezze che strideva in mezzo a tutta quella proporzionata amabilità. 
    In quel cigolio, si insinuó la rottura. 
    Le rondini non sembravano più liete, ma piccoli mostri neri che controllavano i cieli. 
    Il bosco, non aveva più quella frescura balsamica che lo rigenerava, appariva ormai come un groviglio confuso senza sentieri. L'orto, quel campo bagnato di rugiada e fatica, pareva un cimitero senza bagliore. 
    Quella sensazione di gioia immobile che lo aveva pervaso, era diventata una pietra dura sui pensieri che volevano vagare e non riuscivano più a rimanere sospesi a mezz'aria, fermi nel silenzio dei sensi. 
    In quel cigolìo, Nilo raccolse la voglia di rompere quel silenzio pallido. 
    Quella donna sporca e scomposta, aveva gli occhi viola, le clavicole sporgenti e le guance scavate dal digiuno. Ma aveva lo sguardo vivo di chi se la cava, le mani pronte a risolvere, l'umore e la testa sveglia di chi ancora sa pensare da sola. 
    Per il cuore sopito di Nilo, era solo una donna. 
    Per l'anima del monastero, una strega. 
    Se poteste passare di notte sotto il monastero, sentireste ancora le grida di ghiaccio di quella donna. Murata viva tra le spesse stanze dei magazzini. Vedreste i corvi severi controllare le stanze dei novizi, e sorvolare velocemente la biblioteca. 
    Addentrandovi tra i giardini, potreste incontrare un vecchio monaco, sorvegliare i resti delle sue stesse ossa, consumate dal tempo, ai piedi di una grossa quercia azzurra. 
    Sentireste i lamenti spezzati dei monaci, che in circostanze misteriose, uno ad uno, morirono, orribilmente smembrati o impiccati, impalati nei campi e divorati dalle bestie. 
    Sentireste ancora, quella pace sorda, che nonostante i pianti dei fantasmi, riesce ancora a coprire tutto. 

    Liberamente ispirato dalla leggenda del monastero di Sicignano degli Alburni 
  5. zarina

    Diari
    Caro diario,
    ti sto scrivendo con la mente, così non mi distraggo. 
    Ci crederesti? L'ho fatto. 
    All'inizio sentivo la follia che mi frizzava dentro le vene, ma poi è diventato tutto così dolce e fiacco.
    È stato bello questo nostro incontro. In una città senza bordi, nel cuore della notte, una qualunque. 
    Ho avuto voglia di bere. Così da diventare molesta, più felice. 
    Ma poi ho scelto di no. L'ho tenuta chiusa dentro.
    Ha detto diverse parole ma è solo su quelle più consumate e logore, che ho deciso. 
    Come si prendono le decisioni? O da ubriachi o su un battito di ciglia.
  6. zarina

    prove
    Sei venuto qui per uccidermi e io te lo lascerò fare, perché ho coraggio. 
    Ma il mio coraggio non ha niente di rispettabile.
    È solo cieco, e disgraziato. E di questo, hai paura. 
    Sei venuto qui per uccidermi e ora sembri un coniglietto bianco che sporca la neve con il suo stesso sangue.
    Uno psicopatico che somatizza il dolore perché non lo sa sostenere. Ma rilassati. Non ti lascerò solo nel tuo delirio. Sono pronta a seguirti fino all'ultimo sospiro di travaglio.
    Hai preparato il coltello, hai scelto con cura i vestiti da mettere.
    Hai temuto per le tue mani incerte, e per il tuo cuore debole.
    Poi, hai tentato di salvarti, cercando tra i ricordi qualcosa di tenero da portare con te, ma hai trovato solo i miei segreti.
    E ora, mentre siamo qui a capire chi morirà davvero tra noi, ragazzi giovani urlano per la strada, ubriachi.. un po' davvero, un po' per finta.
     
    Comincia tu. 
    G
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