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zarina

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Everything posted by zarina

  1. Sono d’accordo Già dai primissimi momenti si intravedeva la spinta competitiva e anche una certa morbosità nel guardare nel giardino accanto. Si saranno ammalati? Vorranno vaccinarsi o no? Saranno di quelli che all’aperto si abbassano la mascherina? Forse una specie di mania di protagonismo e di presenzialismo, come se ci sentissimo interpreti improvvisati di una serie tv inverosimile, attori diretti della storia che cambiava, ma con noi piccoli omini dentro, che ne facevamo le spese sul posto. Peró all’inizio era una cosa che ci accomunava. Anche se come sempre c’è chi ha potuto disperarsi in situazioni migliori e chi in peggiori, di certo l’attenzione era polarizzata a grandi linee sullo stesso mostro. Diverso è stato quando è iniziata una fase diversa. Una fase meno creativa e più operativa, molto meno surreale di quella precedente. Una fase in cui si è perfezionato il concetto di obbedienza, già presentata come un valore di comunità. Ma quando prima o dopo si esce dalla rappresentazione di ‘tutti’ e si sceglie per sé stessi, si dividono le strade. Perché non c’è una condizione uguale a un’altra. E insidiare tra le persone l’idea che alcune potessero essere -letteralmente- un ostacolo per il superamento del problema, solo per aver esercitato il diritto di autodeterminazione, credo sia stato un fenomeno che ci è sfuggito di mano.
  2. All’inizio mi sembrava una cosa lontana. Codogno, poi la lombardia. Una piccola macchia d’olio che si espandeva. I racconti di persone malate che non si sapeva bene che avessero di diverso da quella che poteva essere un’influenza d’inverno. Un’eco che arrivava ovattata ma non riusciva veramente a farsi sentire. Sembrava quasi una cosa diversa dal solito, originale, da seguire morbosamente per lamentarsi e parlarne compulsivamente. Come tutte quelle cose banali e ingiuste che succedono ma che non cambiano veramente il corso delle tue giornate. La sensazione era che ci fosse pure una piccola competizione interna. Io l’ho avuto, te no. Io senza sintomi, te invece? Chi lo aveva avuto si sentiva un guerriero medioevale e chi non lo aveva neanche sfiorato da lontano, un sopravvissuto. Una specie di status insomma. Quando hanno chiuso le scuole e ho iniziato a dover lavorare da casa, ho pensato che effettivamente sarebbe cambiato qualcosa. Non si chiudono le scuole. Non si chiudono quasi per nessun motivo al mondo, le scuole. Si avvertiva un senso collettivo di pericolo e di carica allerta. Ma c’era anche la volontà di capire, di trovare soluzioni. Le persone sopportavano le prime limitazioni in modo incerto. Critico, ma ancora fiducioso. I medici avevano assunto questa immagine eroica e mitologica dei salvatori. Di quelli che potevano, che sapevano scegliere. Anche per te. Un’immagine irrealistica, ma rassicurante. E le mascherine che prima di quel momento erano in fondo alle priorità di chiunque, iniziarono ad essere il nuovo oro. L’ambizione. Il lasciapassare per un pezzo di libertà disinvolta che potevi esibire. Una libertà usa e getta, ma pur sempre una possibilità. Se ripenso a quei momenti, che sono stati lenti da vivere, mi sembra con il distacco di oggi, che siano invece passati velocemente, e che non si sia ragionato in modo lucido. Ricordo che mi piaceva il silenzio per le strade buie la sera, mi rasserenava quel senso di inevitabile per cui non c’era la scelta se socializzare o meno. Se fare quello o l’altro. Non si socializzava punto. Non si faceva niente. La vita era diventata improvvisamente più basica e spogliata di tutto lo stress. Si viveva semplicemente, e in mezzo c’era anche il lusso di poter pensare. Questa condizione lenta, quasi piacevole, da lí a poco per me sarebbe diventata una gabbia. Mi sono presto resa conto che se il mio spazio fisico nel mondo si era ridotto, era aumentato esponenzialmente quello in etere. Paradossalmente ero raggiungibile da chiunque. Le persone si erano facilmente adattate al contatto virtuale trasformandolo in qualcosa che scimmiottasse quello reale, e si sentivano pienamente in diritto di chiamare, o peggio videochiamare, in qualsiasi momento della giornata, dato che era -ovvio- che fossi disponibile. Piu che disponibile, direi ‘accessibile’ sempre. Non esisteva più il concetto di invadenza e di confine, né quello di assenza, perché eravamo ‘tutti nella stessa barca’ ed era scontato che tu vivessi l’essere in quella precisa barca come gli altri, e che fossi uno dei tanti ingressi umani da raggiungere come possibile. Attraverso i controlli per strada, il lavoro, la scuola. Era come avere continuamente una finestra aperta sul mio privato. Se uscivo dovevo renderne conto. Se stavo in casa, anche. Se avevo contatti fisici con altre persone, ci mancherebbe. Anche se mi ammalavo, avrei dovuto renderne conto. La sensazione di essere così ‘a portata’, non di me stessa ma di altro da me, non l’avevo mai avuta in vita mia. Quello che penso ci abbia lasciato è un senso di stanchezza mentale. L’ansia e l’impotenza. La consapevolezza di potersi facilmente ritrovare inseriti in uno schema universale, che riguarda tutti ma anche nessuno, dove il concetto di libertà individuale diventa relativo e ambiguo.
  3. zarina

    The Neon Demon (1)

    Spero che ricominciate a scrivere anche voi😍
  4. zarina

    The Neon Demon (1)

    Lo hai visto?? pensavo non lo avesse mai visto nessuno nel mondo a parte me 🖤 A me è piaciuto
  5. Veramente c’è il limite? temo di non averlo mai raggiunto 😂 Ho tentato di portare alto il vessillo dei comeviimmagino in tua memoria anche quando non c’eri 🇸🇨🌈
  6. Nooo 🤣 Rischio ❌❌❌❌❌ Oltre ad essere molto più splatter. Non è difficile, devi solo essere decisa, delicata, ed eliminarla per sempre dalla tua vita.
  7. Giusto sì, attenta a non schiacciarla che butta fuori robe
  8. Se hai manualità e la gattina si fa tenere tranquilla non è pericoloso. Puoi comprare la pinzetta adatta (che è un trabiccolino fatto tipo a un uncino) o usare le pinzette normali. Stai attenta ad aderire bene alla pelle, ruoti perche tipo si disincastri anche il rostro. Oppure aspetti, ma poi diventa gigante 😂
  9. zarina

    Shoganai

    Shoganai per me è quando mi sveglio scarica, con quella maliconia addosso che se non - dovessi-, non riuscirei a fare niente perché è come se mi si aggrappasse alle gambe e mi trascinasse giù pesante, e non faccio niente per andarle contro. Quando accetto l'idea di non farcela, di non essere abbastanza in grado. Quando mi dico che per quel giorno va bene anche solo sopravvivere, che non succederà niente.
  10. zarina

    The Neon Demon (1)

    Abitavo lo squallore, ma ero luce. All'inizio mi sembrava di girare e girare, e finire sempre nello stesso posto, con le stesse persone, le stesse luci malate. Quel mal di testa latente che pulsava intorno a me in una specie di allucinazione circolare e psichedelica, mi confondeva. La città era assopita e fatta. Non si svegliava mai davvero, e a me toccava farlo invece. Entrare in quella nube di spettri e riflessi viola di primo mattino mi faceva orrore ma non mangiare, me ne faceva di più. Tutto mi stancava e mi metteva addosso polvere. I tempi morti scandivano le mie giornate. Ma si impara ad allinearsi ai vuoti, si impara tutto. Una stanza per me. Proprio come gli adolescenti. Il portiere era talmente sgradevole. Non si capiva se fosse lui a puzzare delle sue stanze, o le stanze a puzzare di lui. Muffa e ammorbidente. Un fetore che aveva qualcosa di lurido e domestico allo stesso tempo, saliva per tutti i piani e si spargeva sulla moquette dei corridoi. Quando entravo mi guardava con una rabbia brutale che sentivo arrivare dritta in mezzo alla fronte. - Muoviti, che non sono la tua balia, bambina. Avevo detto a lui, come a tutti, di avere diciannove anni anche se sapeva che non potevo averne più di sedici. Usavo il fornellino per accendermi le sigarette. Ma non sapevo fumare e per quel gesto così carino ogni volta era tosse, cenere e puzza. Non ho mai capito chi dice di sentirsi solo, da solo. Se ti curi di rendere te stesso una persona gradevole, non sei solo. E io ero sola. Mi ero lasciata tutto dietro. La scuola, la famiglia, le strade vuote della periferia. Iniziai a sentirmi però fin troppo poco sola, quando le mattine diventarono le notti. Avevo posato per delle foto molto poco glamour scattate da un giovane emergente, e un incontro casuale con una truccatrice mediocre, mi aveva trascinata dove volevo essere. Da amatoriale, alle cose serie. Lei premeva piano i polpastrelli pieni di brillantini sulle mie palpebre, aspettando ogni volta che aprissi gli occhi come se il mondo intero non potesse continuare a girare prima che lo facessi. E io lo facevo. Esattamente come si aspettava. Cercava di sedurmi con il miele, adulandomi di belle parole e carezze gentili. Ma io sapevo bene che chi iniziava così finiva poi per odiarmi, nella frustrazione di scoprire che non ero quello che si aspettava. Mi truccava come fossi la sua bella bambola e poi mi portava fuori. A prendere quell'aria insana che c'era ovunque. Buttavamo giù decine di quei drink venusiani con dentro la menta rancida e poco ghiaccio. Poi li rivomitavo sperando di non dare nell'occhio. La dottrina estetica mi rapiva anche quando non la capivo, anche quando non riusciva a contaminarmi. Nel mio mondo trovavano ancora spazio un'ingannevole ingenuità e una purezza splendente. Il che, mi irradiava di una grazia che bloccava gli sguardi. Ma anche quando mi dimenticavo, c'era sempre qualcuno a ricordarmi la mia bellezza. Sguardi feroci o desiderio strisciante avanzavano dietro ai miei passi come un respiro venefico sul collo, che mi dava assuefazione. Ovunque portassi la mia presenza, serpeggiavano eccitazione e nervosismo. Un nervosismo patinato, e represso. E c'è qualcosa nell'invidia, che si vede. Più cerchi di buttarla giù, più questa sale, facendo i lineamenti di pietra e sale. Più tenti di zittirla più si strozza nella tua gola come un groviglio di nodi. Era così struggente e terribile guardare gli altri salire tante scale al contrario per ottenere quello che io potevo avere facilmente e subito, solo essendo me. Iniziai a nutrirmi di quell'invidia. La ingoiavo come acqua tonica che mi grattava le fauci e mi ritemprava di nuova bellezza. La bellezza non è tutto, la bellezza è l'unica cosa. Anche se non salverà il mondo. Questo era quello che dicevano tutti. Quello che pensavano tutti. Quando lavoravo, finalmente come volevo io, era tutto facile per me. Vedevo che le altre faticavano per tenere in piedi una serie cose che in me erano naturalmente già organizzate. In un'armonia odiosa. I patetici tentativi di sminuirmi che arrivavano dalle ragazze si infrangevano tristemente sulla mia schiena. Si spezzavano fragili come denti da latte, cadendo davanti agli occhi di chi li aveva messi al mondo. Non subivo più lo sbandamento della città. Ne ero completamente parte e scenario. Ero il sangue nuovo che arriva a rigenerare un corpo in fin di vita, senza colore sulle tempie. Pensare che c'era stato un tempo in cui credevo di voler essere come gli altri, prima di rendermi conto che gli altri, volevano essere me. Non so esattamente quando successe. Intendo dire, quando mi risvegliai. Appena prima di sparire nell'incapacità di capirlo davvero. Forse la rottura tra me e le mie buone illusioni avvenne quando mi fermai davanti alla porta del bagno perché avevo sentito piangere Sara, quel giovedì. Le guance scavate le irrigidivano il volto. Immobile, se ne stava davanti allo specchio in una sorta di intorpidimento malefico. Aveva spaccato metà dello specchio e pezzi di vetro scricchiolavano sotto le suole dei miei sandali. Leggevo la delusione sulla sua faccia spenta. Forse c'entrava una sfilata che era saltata. O più probabilmente sentiva che nessuno la guardava più come prima. Che la sua energia vitale, come la sua bellezza, era stata consumata. Usata e riusata fino a renderla ordinaria. Le chiesi se avesse bisogno di aiuto, ma fu come una coltellata per lei. Non so perché lo feci. Sapevo che l'avrei ferita. Forse ero andata in quel bagno per dare a me stessa una versione decente dei miei comportamenti. O forse volevo solo sentirmelo dire. - Come ci si sente, ad essere te? Finsi di non aver capito. - Scusa? Si accese una sigaretta con sicurezza e si acquattó a terra, guardandomi negli occhi mentre anche io mi abbassavo lentamente iniziando a raccogliere i vetri, docilmente. - Non farlo. Non fingere di non accorgertene. Le persone ti guardano. Com'è? Essere incanto. Capace di dare agli altri l'impressione che una sorgente d'acqua ti si metta davanti proprio quando hai sete? Un ronzio insistente si posizionó come un disco tagliente attorno alla mia testa, e per un attimo dovetti prendere un respiro. Quando rialzai lo sguardo la sentii fissa su di me. Gli occhi azzurri si spalancavano voraci verso il mio corpo. Mi sentii predata. Esattamente come avrebbe fatto un cerbiatto desolato, in mezzo a una radura rimasi ferma. - È tutto. Dissi spietata, senza misurare le parole. Senza pensare. Sara scattó in un movimento veloce e rabbioso e nell'indietreggiare appoggiai istintivamente le mani a terra premendo. Il vetro, scivoló dentro la pelle tirandomi fuori uno strillo esile e viscerale. Entró facilmente. Mi accorsi di come si faceva strada su di me, sfilacciando la mia pelle come un velo. Guardai il sangue che macchiava il mio palmo e gocciolava, e un capogiro mi sorprese mentre mi accorgevo di essermi sporcata la gonna. - Fa vedere. Mi disse. Non appena allungai la mano vidi la sua espressione diventare determinata e perversa. Mi afferró il polso e si gettó sul mio sangue succhiando forte carne e vetro. Un colpo di terrore mi scosse e riuscii a staccarmi da lei. La lasciai lì, a quattro zampe come una fiera, completamente imbrattata del mio sangue in volto e sulle mani. Corsi. Corsi veloce. Superai la radura, passai il bosco. Sentivo il cuore che mi saltava in mezzo ai denti e il mio respiro che faceva rumore. Lasciavo chiazze di sangue vivo e briciole di vetro tagliando l'aria. - Stupida cretina che ti sei fatta? Vedi di non darmi problemi. Salii le scale. La moquette. La chiave. Liberamente tratto da The Neon Demon Di Nicolas Winding Refn
  11. Ma infatti Aperitivino delle 10 e mezzo?
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