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Salon Kitty


zarina

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Era sempre al chiuso che succedeva. 
Tra quelle pareti squallide e bianche, le poltroncine intarsiate e il fumo che entrava da tutte le serrature sporcando l'aria e impregnando i suoi capelli crespi. 

Sembrava di stare in gabbie medicate... appesantite da velluti polverosi, senza finestre né spiragli. 
Niente che lasciasse intravedere la trasparenza dell'aria, o i bagliori delle stelle la notte. 
Era come se tutto, dai tappeti ai respiri, fosse intriso di qualcosa di stantio che pesava sul diaframma. 

Lo champagne pizzicava la gola e ammucchiava le parole l'una sull'altra, che non si vedevano più. 
La musica, insignificante e tristemente spensierata, si aggirava per i corridoi disperdendo un senso di attesa e di morte. 

Lei lo faceva con solenne freddezza e distacco.
Una dolce, sadica indifferenza. 
La toccavano nervosi, come fosse una bambola con le ciglia abbassate, affondando il viso dentro i capelli pesanti. 

E ogni volta dopo, mossa da un premuroso senso del dovere, prendeva carta e penna, e compilava con cura il suo rapporto. 

"Non ha parlato molto questo venerdì.. "

Scriveva in bella calligrafia, cercando di sembrare precisa sulle osservazioni. 
Ci teneva a portare a termine il suo lavoro, come un soldato. 
Non aveva stimoli né voglie naturali. 
Non c'era indulgenza né comprensione in nessuno dei suoi gesti, ma il suo sguardo brillava di una tenace dignità. 

Era stata scelta dopo attenta selezione genetica, estetica e morale. Addestrata a conversare in due lingue e ad adornarsi di un'eleganza sobria ma carica di promesse vistose. 
A sorridere sempre, senza ridere mai. A spostare i polsi, e le caviglie, con movimenti allungati e pieni di una grazia delicata e artefatta.
Aveva imparato a riconoscere le uniformi, e disimparato il pudore. 

I nazisti non erano eroi nazionalisti quando sfilavano gli stivali. Non avevano niente dei paladini impettiti di nero che davano l'idea di essere in giro per i vicoli. 
Alcuni erano violenti, altri piangevano. 
Tutti erano banali e viziosi. 
Non volevano essere chiamati generali o continuare a fare i diplomatici. 
Vittime inconsapevoli della loro stessa mania di purificazione, ridevano sguaiatamente davanti a ridicoli balletti e si rendevano osceni protagonisti di scenette volgari. 

A vedersi da fuori, sarebbero sembrati perfino a loro stessi dei poveri stupidi. 
Se c'era qualcosa di salvabile, era la classe di Katherine, la padrona di casa. Istrionica madama. 

Era tutto un raffinato gioco di controllo a cassetti, in fondo. 
Le ragazze, che nell'alcova spingevano gli ufficiali alle confidenze politiche, erano a loro volta sorvegliate attraverso spie e microfoni nascosti. 
Invisibili ascoltatori, intercettavano gli incontri dai sotterranei, pronti a intervenire e trucidare in tempo reale i traditori, ma anche a preparare bozze di perversi ricatti privati. 
L'odore di muffa e sudore si mischiava a un certo olezzo chimico di ghisa disinfettata, e la gelida queite, era interrota solo dai rumori trasmessi nelle radioline scassate. 
Tuttavia sotto terra, sembrava che l'aria fosse meno satura e asfissiante che nelle camere. 

Lei aveva fede. Non era cieca, ma onesta. 

Quest'uomo è matto. Pensó.
Tutto scellerato.
Se ne era stato fermo per minuti interminabili davanti alla specchiera, come se non ci fosse una notte che dovesse finire, fuori. 
Seduto su sé stesso, con la testa tra le mani.
Nessun furore, niente alcol sulle ferite. 
Nessuna droga per dimenticare.
Poi si era alzato di una lentezza snervante, aveva tolto l'uniforme e l'aveva gettata via, come se gli bruciasse addosso. 
Aveva gli occhi di un azzurro che pareva fatto di lacrime, e l'aveva guardata come si guarda un essere umano, in quel deserto degradato, spoglio di arte e di poesia. 

Le aveva chiesto di concedersi senza durezza.
E lo aveva fatto arreso e maldestro, con le mani aperte lo sconforto in quegli occhi che tutto avevano visto. 

Un tremore le attraversó le braccia. 
Non poteva sopportarlo. Sentiva lo spirito che si svigoriva,  quell'emozione gentile le dava dolore fisico. 
La confusione le sporcó la mente. 
È così che si cade. Pensó. 
Nei palmi di un debole. 
È così che ci si arrende alla vita. 
Non c'era più la paura, erano spariti i suoni. 
E gli occhi aperti nel silenzio. Desiderare che ci fosse erba fresca dove sedere, e un sole tiepido, contento di scaldare. 

Intollerabile.

Mille guerre di ferro e di fuoco si accesero nella sua testa. 
Lei non voleva cadere. Non poteva permettersi questa tenera inettitudine. 
Doveva sopravvivere nel suo mondo rovinato. 

Un colpo d'ombra, uno solo. 
Una pallottola dritta, per spegnere ogni traccia d'amore. 

"Margherita!
Stai bene, Margherita.." 

Era di nuovo tutto spento. 

 

Liberamente ispirato da 
Salon kitty 
Peter Norden 

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Recommended Comments

Ci sono tanti modi di essere vittime di una guerra.

Tante guerre dentro una guerra. 

Un'infinita fuga di mondi nello spazio di un gesto, di una sottoveste che scivola, dalla crepa di uno specchio 

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